Ho avuto modo di passare due giorni, come degente, nell’ospedale dove ho vissuto parte della mia vita, come infermiera. Contemporaneamente ho proseguito a leggere il libro Chiamate la levatrice, di Jennifer Worth, ambientato nell’East London negli anni 50.
In questo straordinario libro viene descritto il lavoro delle levatrici, oggi chiamate ostetriche, in un ambiente povero, con pochi medicinali a disposizione, in un degrado totale e con un elevato numero di nascite. In quel periodo esse avvenivano in casa, tra panni stesi, letti improvvisati, bimbi mezzi nudi che giravano per casa, pochi alimenti nutrizionali.
Ma le levatrici, in mezzo a tutto questo squallore chiudevano gli occhi e portavano avanti il loro lavoro non giudicando mai l’ambiente che a loro si presentava. Il loro unico scopo era aiutare la gestante a portare alla luce il bimbo. Ore e ore di attesa, andata e ritorno più volte tra la sede religiosa in cui vivevano, anche se erano laiche e la casa dell’assistito. Non c’era orario, stagione, malessere che poteva trattenerle. Il loro unico scopo era quello!
Citerei anche la figura di Florence Nightingale, di cui ho già parlato in uno mio precedente articolo, soprannominata la Signora della lanterna per la consuetudine che aveva di aggirarsi di notte tra i soldati con la famosa lanterna, per confortare, assistere dare speranza.
Ritornando alla mia degenza ho notato dei notevoli cambiamenti che mi hanno fatto riflettere molto. Avevo già sentito parlare del fatto che il paziente oggi è un numero, che non esiste più il rapporto infermiera-paziente, che manca la spontaneità, il sorriso, lo scambio di sguardi ma credevo che si esagerasse, come ormai si è soliti fare.
Ma mi sbagliavo, ho constatato infatti che è così, sembra che ognuno viaggi su due binari diversi, su due vagoni diversi e che l’obiettivo finale non sia lo stesso: la guarigione.
Eppure non è passato moltissimo tempo, come nel caso del libro citato, ma ho notato lo stesso il cambiamento negativo.
Nei classici corridoi dell’ospedale tutto è più calmo, più lento, sembra di girare un film alla moviola, chi deve giacere a letto per ore o giorni non ha più una parola di conforto, un sorriso dato anche velocemente, un saluto giornaliero.
Altra cosa che non riesco ad accettare è il contatto obbligatorio dato con i guanti di lattice. Ai miei tempi questi venivano usati esclusivamente in caso di possibilità di contagio mentre oggi sono di routine. Il contatto è freddo, crea barriera.
Se ritorno ai miei tempi tutto era diverso, non dico migliore perché il lavoro era tanto. Le siringhe erano di vetro e non erano monouso, dovevi sterilizzarle tutti i giorni tramite bollitura. Non parliamo degli aghi, li potevi sostituire solo se avevano la punta scheggiata. Le garze per la medicazione erano contate e i guanti lesinati. Ma una cosa che non mancava mai era il giro del reparto al mattino e il saluto. Te lo inculcavano nel corso, te lo ricordava ogni giorno la Capo sala e quindi era una cosa che facevi sempre, prima di iniziare la tua giornata. Ti informavi della notte passata, se aveva delle necessità. Come va? Come ha passato la notte? Ha problemi? Ha bisogno di qualcosa? Queste erano le domande quotidiane.
Ho trovato che è soprattutto quello che manca, il dialogo.
Ho notato invece più aggregazione tra il personale. Anche questo non esisteva. Avevi lo scambio con gli altri infermieri solo per il passaggio di consegne tra un turno e l’altro, se avevi del tempo libero cercavi come sfruttarlo al meglio. Poteva essere un mettere a posto gli strumenti, leggerti una cartella clinica per aggiornarti, stare vicino a chi stava soffrendo o ai famigliari, stare accanto a chi era solo. Una parola di conforto fa sempre piacere, ti risolleva il morale.
E poi, per ultimo, la privacy. Ti fanno firmare un foglio per la privacy ma dovrebbe comprendere anche quella del corpo, non solo dei dati anagrafici.
Il tuo corpo è alla mercé di tutti, in primis i tuoi compagni di camera, perfetti sconosciuti fino a qualche giorno o qualche ora prima. Se poi ci metti anche il parente che non può lasciare la stanza perché deve stare vicino al congiunto…
E poi gli infermieri, gli addetti alla pulizia, magari anche l’imbianchino. Tu sei lì, che cerchi di arrangiarti alla meglio per i bisogni giornalieri e senti parlare di moda, di calcio, ecc. Oppure al contrario, i tuoi bisogni stanno con te ore e ore, per farti compagnia e quando si ricordano di te il tuo corpo è deformato!
Ai miei tempi era d’obbligo la cuffia inamidata la cuffia o addirittura il velo con i capelli raccolti dentro lo stesso, sembravi una suora, ma almeno non te li trovavi nel pasto, nel letto, ecc.
Esistevano i paraventi, te li portavi sempre dietro come la coperta di Linus, isolavi il paziente da ogni sguardo, lo facevi sentire più libero, più umano. Ora credo che questi facciano parte solo di un arredamento giapponese, non più nostro.
E portavi la cuffia o addirittura il velo con i capelli raccolti dentro lo stesso, sembravi una suora, ma almeno non te li trovavi nel pasto, nel letto
Pudore? No, rispetto!
Con questo mio scritto non voglio fare di ogni erba un fascio, questa è stata solo la mia esperienza. Sicuramente esistono delle ottime infermiere, loro hanno il mio più grande rispetto, ma sfortunatamente non ho avuto l’onore di incontrarle in questa mia ospedalizzazione.